Il contadino ebbe l’infelice idea di venirci a dire che proprio in fondo al nostro campo, vicino a una capannuccia di legno in rovina, aveva visto due vipere. «Che posso fare per queste vipere?» domandai il giorno appresso al contadino. «Ci metta due o tre ricci. I ricci se le mangiano, le vipere». Finalmente, una sera il contadino arrivò con due ricci enormi proprio mentre i nostri vicini erano a cena da noi.
«Ci metta i ricci» aveva detto il contadino. Ma che significava ‘mettere’? Non erano piante o vasi, erano esseri viventi. Quindi decisi di scaricarli nell’orticello che avevamo vicino a casa e di lasciarli lì. L’indomani mattina andai nell’orticello. Dei ricci nessuna traccia. Percorsi palmo a palmo tutto il campo, anche dentro e fuori la capannuccia dove il contadino aveva visto le vipere, ma i ricci erano spariti.
Andai a trovare il mio vicino. E lo sorpresi che stava costruendo una grande gabbia col fil di ferro, così grande che stava rifinendola standoci dentro. Accanto a lui c’era un riccio.
«Che fai?» «Sto costruendo una gabbia per il riccio. L’altro stanotte è scappato». «Anche i miei». Mi sorse un dubbio. «Scusa, ma se tieni il riccio in gabbia, come fa ad andare a caccia di vipere?» «Ah, già» disse «non ci avevo pensato. Ma lo metto in gabbia lo stesso, mi piace guardarlo». Ci mettemmo a chiacchierare. A un certo punto il mio amico annunziò: «Ho finito». Si guardò attorno, sempre dentro la gabbia. «Ma dov’è il riccio?» Il riccio approfittando della nostra distrazione, aveva scavato una buca e si era facilmente liberato. Ma non era scappato. Stava fermo a guardare, con una certa curiosità, l’uomo dentro la gabbia. Ma, quando il mio amico volle uscire, non poté. L’apertura della gabbia andava bene per un riccio, non per un uomo. Dovetti smontarla io dall’esterno, dato che lui l’aveva saldamente ancorata alla terra. Nel frattempo il riccio era scomparso per sempre. Fallito miseramente il tentativo coi ricci, venni spronato di nuovo alla caccia da mia suocera.
Devo dire, in tutta sincerità, che io non ero tanto convinto di questa storia delle vipere. L’estate precedente lo stesso contadino mi aveva detto, ma quella volta fortunatamente eravamo soli: «Or ora ho ammazzato una vipera». Andai a vederla. Ma quale vipera e vipera! Era un serpente comune, poco più lungo di un metro, un innocuo verdone, uno di quelli che io da bambino, in Sicilia, agguantavo a mani nude.
«Che possiamo fare contro queste vipere?» «Ci sarebbero i tacchini» disse il contadino. «Anche loro son ghiotti di vipere». Non mi risultava. Ma andai subito dal macellaio del paese. «Vorrei due tacchini». «Glieli faccio trovare domani mattina». Me li consegnò puntualmente, spennati alla perfezione. Chiarito l’equivoco, colpa mia, non mi ero spiegato bene, me ne procurò due vivi e di grossa stazza. Avete mai provato a far entrare due tacchini enormi dentro a una comune automobile?
Con l’aiuto del macellaio e di alcuni gentili passanti, ci riuscimmo e finalmente li liberai nel campo. Come se avessero sentito l’odore delle vipere, si diressero velocemente verso la zona di caccia. Sotto ai miei occhi ammirati per il loro fiuto, oltrepassarono correndo la capannuccia, saltarono la siepe di confine con un campo vicino, sparirono in mezzo agli alberi. Se ne stavano scappando! Con un urlo, mi gettai al loro inseguimento. […]
Ancora ansimante per la corsa precedente, proprio sulla soglia del cancello tentai nuovamente di placcarli. Il balzo stavolta fu corto e ne riuscii a fermare solo uno. Però vidi che l’altro tacchino, dopo aver fatto una breve corsa, stava tornando verso di me, con un’aria che non prometteva niente di buono. Era chiaro che voleva liberare il suo compagno assalendomi a beccate. Immediatamente pensai che avrei avuto la peggio e così lasciai la presa, mi rialzai, voltai loro le spalle e me ne tornai a casa definitivamente sconfitto. Ma prima di varcare il portone, alzai la testa e dissi alla famiglia affacciata: «Se qualcuno tira in ballo di nuovo le vipere, vuol dire che facciamo le valigie e rientriamo a Roma». Nessuno parlò più delle vipere. Anche perché non riuscimmo a vederne nemmeno l’ombra.
Tant’è che due estati dopo, quando comparve don Gaetano…Una mattina, verso le sette, mentre stavo a parlare col contadino, vidi snodarsi, da un buco tra i sassi che formavano il muro del terrapieno, un bel serpentone di oltre un metro e mezzo. «La vipera!» gridò il contadino alzando minacciosamente la vanga. «Stia fermo. Non è una vipera». Era un verdone che intanto, dignitosamente, stava traversando in lunghezza il terrapieno, destreggiandosi tra i piedi delle sedie e dei tavoli. Poi entrò nella siepe che c’era a destra e sparì.
M’affrettai a mettere in guardia la famiglia. «Se ricompare, niente panico. È assolutamente innocuo». Quella sera stessa rispuntò dalla siepe, rifece in senso inverso la via della mattina, si infilò di nuovo nella sua tana. Il giorno appresso, la stessa storia. Uscita da casa alle sette, rientro alle otto. Puntualissimo. Metodico. Discreto. Dignitoso. Con un passo (si può dire così di un serpente?) sempre regolare, né troppo veloce né troppo lento. «Deve avere un impiego da qualche parte» disse la mia figlia maggiore dopo una settimana che lo vedeva andare e venire.
Lo chiamammo don Gaetano. La sera, quando rincasava, era facile che noi fossimo ancora tutti fuori a goderci la frescura. Bene, don Gaetano passava tra di noi con somma discrezione, pareva quasi volesse scusarsi. Diventò talmente di casa che, avendo letto da qualche parte che ai serpenti piace il latte, riuscii a incastrare una scodellina ricolma proprio accanto all’entrata della tana. Dopo due giorni, il latte era ancora lì. «Mangerà alla mensa» disse la maggiore sempre più convinta che don Gaetano avesse un regolare impiego con tanto di cartellino da timbrare all’entrata e all’uscita. L’estate successiva non c’era più. «Sarà andato in pensione» fu la conclusione di mia figlia.
[Testo riadattato da L’anno della grande caccia in I tacchini non ringraziano Di Andrea Camilleri]