«Ciao, dottore. Come mai qui? Non potevi più resistere, vero, senza di me?»
«Che dici, mi offri il pranzo?»
«Esagerato. Io avrei mangiato solo una pizza, al solito carretto. Dai, una sfogliatella e un caffè al Gambrinus: mi sembra un giusto compromesso».
«Sprecone. Eppure dicono che sei ricchissimo. Va bene, mi accontento: pur di non prendere altra aria».
Camminarono in silenzio, percorrendo controvento i duecento metri che li separavano dal Caffè: il dottore tenendo saldo il cappello e stringendo il bavero del cappotto, Ricciardi con le mani in tasca e i capelli scompigliati. Rifletteva sugli elementi raccolti nella mattinata: aveva la sensazione di avere in mano i pezzi di un burattino di legno e di non sapere come montarli; e aveva anche la spiacevole impressione di non aver dato il giusto peso a qualcosa. Ma a cosa?
Entrarono, strofinandosi le mani, e sedettero al solito tavolino di Ricciardi, quello vicino alla vetrata che dava su via Ghiaia. Il dottore sbuffò, togliendo cappello e soprabito e sfilandosi i guanti. […]
Era arrivato il cameriere. Ricciardi ordinò due sfogliatelle e due caffè. […]
Il cameriere tornò, portando l’ordinazione: il dottore si abbatté sulla sfogliatella, famelico. I baffi brizzolati divennero bianchi per lo zucchero cosparso sulla soffice pasta; accompagnava i bocconi con mugolii di piacere. «Mmh… chiedimi che cosa mi piace di questa città, e io ti dirò: la sfogliatella! Non il mare, non il sole; la sfogliatella».